bacco baccanels – 1995 e settembre 2000
Io di solito scrivo canzoni e questa mattina mi sono svegliato con l’amaro in bocca, nella notte ho ingoiato una lente a contatto.
Nel bagno, le calze mi osservano con rimprovero, come corvi neri appollaiati sullo stendibiancheria telegrafico. Le poverine, nel linguaggio sobrio del filato di Scozia, mi accusano di negligenza, stanche di rinsecchire aspettando una primavera di ammorbidente che tarda a venire.
Fuori dalla finestra non c’é dubbio. Fuori piove.
Il batterista, la sera precedente ci aveva lasciati soli, tristi melodie senza una briciola di funk.
Se ne era andato lasciandosi dietro odore di metropolitana. Spariva sotto l’acqua piano piano, in dissolvenza, e cercava se stesso in una banda che suonava vero rock’n roll.
Nel suo linguaggio ritmico di rullante anni settanta mi accusava di inefficienza e di sfortuna, stanco, sí anche lui stanco, di rinsecchire nell’attesa di una primavera di successo che non poteva piú arrivare.
Un nuovo chitarrista sostituiva il precedente e questo sí che si dava da fare per peggiorare le cose.
Era venuto dalla pioggia con il polso molle del suonatore di valzer e se ne era andato piú blues che mai, mentre pioveva ancora.
Ora sta cercando se stesso in una palestra per soli uomini. Dicono che stia benone, ha scordato la ragazza che aveva lasciato per il nuovo swing.
Me mi ricorda, invece, io gli ho detto di andarsene: poteva ancora evitare di diventare un musicista ed io ne volevo fare un uomo.
Dieci del mattino.
Fuori piove mentre mi siedo alla tastiera e mi collego in rete. Il cyberspazio é appena stato creato da un big bang troppo legato agli affari per generare qualcosa di interessante.
Il viaggio in treno mi ha informato sulle partite della domenica. In piú, ho saputo che molecole e roba simile non sono importanti per il mio lavoro. Lo diceva una signora con un lavoro ed un figlio studente: l’erede promette bene.
Squilla il telefono ed é come se il nostromo orbo mi sferzasse con lo scudiscio la bella schiena tatuata.
Il mostro che divide con me questa stanza mi fissa con goloso interesse; aspetta che un amico, un’amante, insomma una chiamata personale, riesca ad incollarmi al telefono per decine di minuti. In questo caso, egli divorerí la mia anima.
Alzo il telefono, e ascolto.
– Senta,cortesemente, scusi lei ma sa, ho gií parlato col responsabile gentilissimo, il quale, col quale, ho operato a modifica effecinque e altviunoicsuno ma niente! Ora lei potrebbe, scusi lei signor zolfanello, anche insieme, non posso lavorare.
– Non mi chiamo Zolfanello.
– Sí, sí, scusi lei cortesemente ma io abitualmente contasto… conosco nostro referente bancario Zoltanella e porgo scuse…
– Lei si serve abitualmente dei nostri…, provo a rispondere.
– Sí, sí, io sono la Manipolatrice e cortesemente ad uso interno eventualmente non potrebbe fornire lei quanto mi serve in urgenza disperata…
Capisco che ci sono problemi, mi attrezzo di quanto necessario ed esco.
Piove.
Il mio ombrello come al solito mi ha fatto le corna insieme a qualcuno che probabilmente dice di essere amico mio. Sarí sicuramente imboscato in qualche bar della zona ad ubriacarsi con qualche pieghevole venuto da Taiwan.
Nel suo linguaggio stringato di ombrello mi fa capire che la fedeltí bisogna guadagnarsela.
Ma io sto andando a guadagnarmi il pane, perdio! Allora gli rendo la pariglia ed esco cinguettando con un’ombrella gialla dal cappello tropicale.
Eccola di nuovo la cittí. Quante volte avrei voluto cantarla, ma é davvero difficile.
Tanti anni fa ci hanno provato perché tutte le altre cittí avevano una loro canzone e non si poteva andare in giro, cittadini orgogliosi, senza qualcosa da cantare con nostalgia.
Pensa che figura da snob cantare ubriaco il Nabucco o l’aria del Rigoletto contro “Romagna Mia” e “Quanto sei bella Roma”.
Tutti gli invitati al matrimonio improvvisamente si fanno muti e poi litigano.
– E’ la Traviata!
– No, é l’Ifigenia in Tauride!
Poi passano al ricordo di come cantavano bene nel coro della chiesa.
– Te lo ricordi il Tarcisio?
– E il povero Adolfo?
– Insomma, oggi non si canta piú come una volta. E andiamo a casa che tra l’altro io non ho neanche digerito bene, quell’agnello…Surgelato, eh?
– Nooo…, sur gelato cera il uischi.
Per risolvere questi problemi, stato e chiesa hanno deciso che serviva una canzone.
E’ proprio bella: parla di farsi un culo cosí lavorando e di come siamo stufi di trovarci immigrati ed extracomunitari tra le scatole. Zumpapa!
Si tratta di una canzone molto vecchia, certo, ma sembra ancora molto attuale.
E’ ancora sotto la pioggia che questi pensieri mi restituiscono quell’amaro che il mattino aveva depositato, come un uovo freschissimo inzuppato di fernet, sulla mia lingua.
Mi fermo, ed estraggo dalle fauci il tappino di una Bic punta media che stavo sgranocchiando. Sarebbe stato un buon tappino, chiedo scusa alla vedova, se non fosse per i sorrisi che si accendono intorno a me, cadrei nello sconforto.
E’ tardi e non potró arrivare in tempo.
Volere é potere, ma il treno sarí comunque in ritardo. Mi compiaccio del disservizio dato che potró lamentarmene stasera in famiglia.
– Eh, io che sono in giro tutto il giorno li provo sulla pelle, io, gli scioperi dei macchinisti e sti ritardi…
– Guarda, lo stanno facendo vedere anche al telegiornale…
– Sí, guarda pure, ma non fanno vedere che casino c’era alla fermata. Due ore, due ore ho aspettato ed il cliente si é lamentato del ritardo e ha telefonato in ufficio…e allora sai cosa gli ho detto? Gli faccio: senta lei, se io dovessi essere responsabile di tutto quello che succede dovrebbero pagarmi il triplo, non la miseria che mi danno per fare questo lavoro…
Il brusio della gente mi stupisce ed accoltella il mio sogno ad occhi aperti, sbarrati dalla digestione laboriosa.
E’ strano, la folla non parla mai sulla banchina, da cui il termine Maggioranza Silenziosa.
– Si é buttato sotto…
– Maa noo, sarí stato un guasto. Anche ieri…
– E adesso, perché non dicono niente?
– Certo peró che poteva aspettare dieci minuti…
– Ma cosa dice, signora!?
– Ma no, dicevo cosí, mi scusi, poverino…
Un treno passa quasi subito, la folla lo assale.
Via la gente, faccio contenta la mia scheda telefonica facendola accoppiare con un telefono pubblico in calore.
Dopo poco riappendo. Il batterista ha risposto.
Stava ingrassando per trovare se stesso in un gruppo di vero rap, peró é strano, anche attraverso il telefono sentivo odore di metropolitana.
Mah !
Sarí la pioggia, che rende tutto piú difficile.
Yeah, la pioggia che rende tutto piú difficile.
Ritornello. Fine.